mercoledì 14 giugno 2017

SOLDI ALL'AFRICA AIUTANO SOLO LE ONG:RECORD DI FUGHE DAI PAESI COPERTI DAI DOLLARI

Sconcertanti i dati Ocse: gli aiuti hanno aumentato il tasso di povertà dell'11%. Ecco i numeri che spiegano come si uccide un Continente

Dambisa Moyo è un'economista africana che ha studiato a Oxford e Harvard, e ha lavorato, tra gli altri, per la Banca mondiale e Goldman Sachs. Il suo primo libro uscì nel 2009: oggi diremmo che erano «tempi non sospetti», non si poteva ancora immaginare la fuga disperata di milioni di africani verso l'Europa meridionale.

Il volume s'intitolava Dead Aid (in italiano lo pubblicò Rizzoli con il titolo La carità che uccide) ribaltando lo slogan dell'epocale concerto Live Aid che 14 anni prima inaugurò la stagione, mai conclusa, degli eventi musicali benefici a favore dell'Africa. Per la Moyo, nata e cresciuta nello Zambia, l'«aiuto dal vivo» era piuttosto un «aiuto morto». La tesi era semplice: i fondi umanitari non aiutano affatto la crescita del continente ma lo impoveriscono sempre più. Anzi, rappresentano «una cornucopia d'elemosine con cui il mondo sviluppato tiene al guinzaglio l'Africa».
La carità a volte uccide, gli aiuti non aiutano, i soldi impoveriscono. E le grida d'allarme rimangono inascoltate. Una fiumana di denaro da tutto il mondo sviluppato ha continuato a riversarsi sull'Africa, i concerti di beneficenza si sono moltiplicati, le stelle di Hollywood si sono lavate la coscienza viaggiando nei Paesi della fame (con troupe di fotografi e tv al seguito). Sembra che il sostegno della comunità internazionale non sia mai mancato al continente più indigente del pianeta. Eppure la miseria è dilagata. Le guerre continuano a divampare in conflitti civili e religiosi, come le persecuzioni degli islamici ai danni dei cristiani nel Sud Sudan. Gli effetti delle devastanti carestie non sono stati arginati dagli interventi delle Ong e della cooperazione. Ma soprattutto abbiamo cominciato a conoscere l'esodo di massa, la fuga dall'Africa maledetta, le ondate di disperati che rischiano l'unico bene rimasto - la propria vita - per inseguire l'ombra della speranza proiettata dall'Occidente.

DIECI PRENDITUTTO

Gli aiuti internazionali non sono mai mancati. Ma a che cosa servono? I flussi di denaro sono colossali. Secondo le statistiche dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) dal 2006 al 2015 sono piovuti in Africa 515,8 miliardi di dollari tra contributi ufficiali pubblici e privati. Una massa enorme di denaro, che è cresciuta anno dopo anno: dai 27,7 miliardi del 2006 ai 51,8 del 2015 si registra un aumento dell'87 per cento. Quasi il doppio, nonostante la crisi finanziaria internazionale e gli investimenti produttivi fatti in Africa, esclusi da questo conteggio: segno che non si può rimproverare ai Paesi sviluppati una perdita di attenzione e un irrigidimento dell'impulso solidale.

Nel complesso questa quantità di soldi è stata assorbita per oltre metà (54 per cento) da dieci Paesi che, con l'eccezione del Sudafrica, sono anche quelli da cui si sta registrando l'esodo più consistente di persone verso il Mediterraneo: in testa si trovano Egitto, Nigeria, Marocco, Etiopia. Se guardiamo i soli dati del 2015, a queste nazioni si aggiungono Algeria, Congo, Uganda. La distribuzione degli aiuti rispecchia l'evolversi delle crisi umanitarie. In base ai dati del Viminale, infatti, dall'inizio del 2017 fino a metà maggio il più alto numero di migranti sbarcati sulle coste italiane (in tutto 50.041, il 47,5 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso) proveniva proprio dalla Nigeria.
Il parallelismo è sconcertante. Proprio i Paesi destinatari delle quote maggiori di aiuti internazionali sono quelli da cui fuggono più persone. I fiumi di denaro della cooperazione s'ingrossano ma la povertà in cui campano gli africani non arretra. I soldi non bastano mai e la gente che fugge disperata è sempre più numerosa. Dalla Nigeria martoriata dalle milizie islamiste di Boko Haram e dalla siccità del Sahel sono sbarcate in Italia solo quest'anno 6.516 persone nonostante che nel 2015 il Paese africano avesse ricevuto quasi 21 miliardi di euro di aiuti, di gran lunga la quota maggiore di una singola nazione. Dalla Guinea sono approdati 4.712 profughi a fronte di aiuti nel 2015 per 217 milioni di dollari (1,3 miliardi nel decennio); dalla Costa d'Avorio 4.474 profughi (1,2 miliardi di sovvenzioni nel 2015, 3,5 nel decennio).

SEMPRE PIÙ POVERI

Ancora: dal Senegal sono sbarcati 3.069 profughi (784 milioni di aiuti, 6,1 miliardi nel decennio); dal Mali 2.240 (683 milioni nel 2015 e 6 miliardi nel decennio); dal Sudan 1.395 (511 milioni di dollari nel 2015, 12,6 miliardi complessivamente dal 2006). Il caso forse più paradossale è quello del Marocco. Il re Mohammed VI lo ha reso il Paese più sicuro dell'Africa a nord del Sahara, ha portato internet, sviluppato aziende, costruito autostrade anche grazie alla massa di finanziamenti tracciati dall'Ocse nel decennio: 27,3 miliardi di dollari, quarta nazione del continente dietro a Egitto, Nigeria, Sudafrica. Eppure dal Marocco si continua a fuggire perché nei primi mesi del 2017 hanno attraversato il Mediterraneo 3.055 magrebini. Secondo l'Istat al 1° gennaio 2016 vivevano in Italia 437.485 marocchini, terza comunità straniera presente in Italia dopo romeni (22,9% di tutti gli stranieri presenti sul territorio) e albanesi (9,3): i marocchini ne costituiscono l'8,7%.
In Africa non esiste un solo Paese che possa smentire il trend individuato anni fa dagli osservatori più avveduti: gli aiuti dei Paesi occidentali non alleviano la povertà dei popoli di colore. Dal dopoguerra al Duemila, ha calcolato Dambisa Moyo nel suo libro, sono stati convogliati oltre 1.000 miliardi di dollari e ancora oggi nel continente nero l'80 per cento della popolazione deve sopravvivere con meno di un dollaro al giorno.

TASSE E CORRUZIONE

L'assistenzialismo non è la ricetta che possa cambiare la governance africana. Tra il 1970 e il 1998, anni in cui i sussidi al continente sono cresciuti vigorosamente, il tasso di povertà è complessivamente salito dell'11 per cento. Prima ancora che le condizioni di salute, il riscaldamento globale e il terrorismo, il deficit numero 1 dell'Africa riguarda la crescita economica: dove c'è sviluppo produttivo e miglioramento dei redditi si verifica anche una maggiore tutela della salute con un terreno meno favorevole al terrore delle armi. Ma sul fronte dei cambiamenti strutturali nulla si muove. Secondo il Rapporto 2017 sulla competitività dell'Africa stilato dal World economic forum, la fondazione svizzera che ogni inverno promuove il vertice di Davos, i fattori più problematici per la crescita del business nel continente sono l'accesso ai finanziamenti, la corruzione, la tassazione, l'inefficiente burocrazia statale e l'instabilità politica. Fatto 100 l'accesso all'elettricità nei Paesi sviluppati, l'indicatore scende a 78 nell'Asia meridionale e precipita a 48 nell'Africa subsahariana. I consumi elettrici in Africa sono di 570 chilowattora pro capite contro gli 8.082 dei Paesi sviluppati. Soltanto il 39 per cento degli africani ha accesso alle cure sanitarie (98 nei Paesi Ocse) e il 72 all'acqua.

ONG POCO CHIARE

Il deficit infrastrutturale resta dunque tragico. Ma il divario può venire colmato soltanto da investimenti produttivi, che per esempio la Cina sta sviluppando moltissimo a costo di colonizzare a sua volta buona parte del continente. Il sistema degli aiuti invece consente ai grandi donatori di tenere l'Africa in una condizione di inferiorità perenne, tanto più che i finanziamenti finiscono molto spesso nelle tasche dei dittatori e degli sfruttatori. Quando un governo sa di poter contare su beni che non dipendono dalla propria azione (come i sussidi che la solidarietà internazionale comunque eroga, ma anche la ricchezza delle risorse naturali), esso perde interesse a perseguire obiettivi di sviluppo.
Ma oltre ai tiranni locali che alimentano i propri conti bancari offshore e alle grandi organizzazioni internazionali espressione dei Paesi sviluppati che perpetuano il controllo sul continente, esiste un'altra realtà che non ha interesse a modificare la subalternità africana: sono le Ong. Alle organizzazioni non governative che fanno da tramite tra i finanziatori e i finanziati non conviene che cambi il sistema di aiuti internazionali perché è ciò che giustifica la loro esistenza. Un sistema opaco, dove non regna la trasparenza e dove si compiono indisturbati, come s'intitola un libro dell'economista americano William Easterly, I disastri dell'uomo bianco. Sottotitolo: «Perché gli aiuti dell'Occidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene».

STEFANO FILIPPI :GIORNALISTA INVIATO SPECIALE

lunedì 12 giugno 2017

HOMO HOMINI LUPUS:VON HAYEK IL PRECURSORE



La grandezza di un pensatore non si misura dalla quantità di citazioni
nelle riviste specializzate; sta, piuttosto, nel suo dissolversi come
«senso comune», elemento di una visione del mondo generalmente
condivisa, strumento, insomma, di «egemonia» nel classico senso
gramsciano di «direzione intellettuale e morale» delle classi
subalterne. Friedrich August von Hayek, in questo senso, è un grande.
Si legga (o si rilegga) il suo opus maximum, la trilogia Legge,
legislazione e libertà (da poco nuovamente in libreria per i tipi del
Saggiatore): vi si troverà il background filosofico, economico e
giuridico del common sense del nostro tempo, in cui - da destra come
da sinistra - si è perduta ogni fiducia nella capacità conformatrice
dello Stato e si è delegato alla «società civile» (ai suoi «corpi
intermedi») il compito di regolare, amministrare e, naturalmente,
agire.

Che si tratti di disciplinare un certo settore, di gestire un'attività
produttiva, di cura delle persone, ormai non cambia nulla: meglio che
lo facciano i privati. Hayek ne spiega i motivi: l'ordine che
scaturisce dalla società civile è un «ordine sociale spontaneo», vale
a dire una struttura relazionale prodotta da individui che si
riconoscono reciprocamente diversi e, proprio per ciò, rinunciano a
creare una comune gerarchia di fini, limitandosi a cercare l'accordo e
la cooperazione sui mezzi. Tanto ciò è vero, che la sua critica
all'intervento dello stato nell'economia si appunta proprio
sull'opposto convincimento che sostiene quanti auspicano quest'ultimo,
vale a dire che un discorso «comune» sui fini - a cominciare dalla
risposta da dare alle tre classiche domande: cosa, come e per chi
produrre - sia possibile.

Siffatto convincimento, dice Hayek, trae origine dalla propensione di
certi economisti a imitare le procedure proprie delle scienze
naturali: una vera e propria «presunzione del sapere», che implica
l'arbitraria trasposizione di metodi di pensare a campi diversi da
quelli in cui si sono formati. La distribuzione tra possibili usi
diversi delle risorse disponibili mette capo, infatti, a questioni
assai diverse dai problemi di tipo «ingegneristico», giacché, anche se
la formula della massimizzazione dei risultati si applica ad entrambi,
non è affatto «dato» l'ordine di importanza dei diversi bisogni della
comunità e, per conseguenza, il criterio di scelta fra usi alternativi
delle medesime risorse.

L'ordine concorrenziale, in effetti, adegua la struttura produttiva al
continuo mutamento dei piani e dei desideri individuali basandosi
soltanto su due segnali: la disponibilità di «potere d'acquisto», che
permette la riconoscibilità sociale del bisogno, e il «prezzo» delle
merci, che facilita la scelta di quella configurazione costi-benefici
che massimizza l'utilità del singolo scambista. In tal modo, la
mancanza di una scala comune di valori diviene un fatto privo di
importanza pratica: basta che ci sia accordo sul mezzo (lo scambio),
restando irrilevante il fine per cui ciascuno scambia (salvo il caso
di un motivo illecito comune a entrambe le parti, come dice l'art.
1345 del codice civile). Di contro, per coloro che invocano
l'intervento dello Stato, il problema di comporre bisogni distinti e
in potenziale competizione tra loro in una comune gerarchia di fini
diventa ineludibile. Ma è possibile ordinare secondo un piano
consapevole i bisogni di una società intera?

La risposta, per Hayek, è negativa. A suo avviso, la conoscenza umana
è limitata e, siccome non è possibile (nemmeno volendolo) conoscere le
reali preferenze di ognuno, non vi è modo di combinare le scale di
valori individuali per formare una scala comune concordata, a meno di
introdurre un qualche meccanismo dittatoriale che imponga la volontà
di qualcuno su quella di tutti gli altri. Di conseguenza, egli scrive,
tutto ciò che può fare oggi la politica è garantire il corretto
funzionamento del mercato, cioè dell'unico «ordine» che non necessita
di scelte collettive (a parte quelle minime concernenti la difesa e
l'ordine pubblico) e che sorge, come s'è visto, dalla cooperazione
spontanea di individui che perseguono propri fini particolari.

Quanto un simile modo di pensare si sia affermato, persino tra la
sinistra «antagonista», ognuno potrà verificare agevolmente. Ma anche
quanti non si rassegnano a considerare il capitalismo come la fine
della storia debbono misurarsi con i problemi posti da Hayek: giacché
«comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni
dell'avversario», diceva Gramsci, è l'unico modo per «porsi da un
punto di vista `critico', l'unico fecondo nella ricerca scientifica».
Bisogna leggere, dunque, e «cercare ancora».

LUIGI CAVALLARO:Giudice del lavoro presso il tribunale di Palermo, studioso del pensiero economico

venerdì 9 giugno 2017

LE 10 CITAZIONI PIU' SIGNIFICATIVE DI ZBIGNIEW BRZEZINSKI

Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter negli anni 1980 è stato la figura più importante della politica estera americana, è morto all'età di 89. RT ha ripreso  le sue citazioni più suggestivie.

Zbigniew Brzezinski, morto 26 maggio 2017 è stato consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti del presidente Jimmy Carter 1977-1981.
Come tale, è stato un importante architetto della politica estera di Washington, sostenendo una politica più aggressiva nei confronti dell'URSS - in  rottura  con la  precedente Distensione - che si è concentrata sia sul ripristino del riarmo  degli Stati Uniti. Rimase fino alla sua morte un osservatore ascoltato per  politica estera degli Stati Uniti.Ecco le sue  principali citazioni


-Rinpiangere cosa? Questa operazione segreta (appoggio militare dei talebani da parte degli USA durante la guerra in Afghanistan contro l'URSS negli anni 1980 ) fu un'eccellente idea.Che ebbe l'effetto d'attirare i Russi nella trappola afghana..

- .Presto sarà possibile monitorare costantemente tutti i cittadini, mantenendo un aggiornamento completo dei file  che contengono tutte le informazioni su di essi, anche le più personali
-
Si deve tenere a mente due cose. La prima ,la russia non può stare in Europa senza che ci sia anche l'Ucraina.E in seguito che l'Ucraina può stare in Europa senza che ci sia la Russia
-
Gli israeliani si comportano sempre più come suprematisti bianchi in Sud Africa durante l'apartheid. Essi considerano i palestinesi come esseri inferiori e non esitano  ad ucciderli , in maniera massicci.
-
Sempre più persone non capiscono nulla della cosa  pubblica e d 'altronde sono molto sensibili alle parole d'ordine estremamente semplicistiche  che vengono inculcate dai loro candidati provenienti dal nulla, senza alcuna esperienza, ma con slogan molto seducenti
-
Anche se lo stalinismo è stata una tragedia inutile sia per il popolo russo che per il comunismo come ideale, è possibile che per il mondo in generale, sia  stato una benedizione sotto mentite spoglie.
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.La libera circolazione delle persone può assumere dimensioni enormi, monumentali. Non credo che nessun paese in Europa occidentale o in America potrebbe adottare l'idea  libera e totale della circolazione di persone.
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.La sovranità è una parola nominale, utilizzata troppo spesso che non ha alcun senso specifico.La sovranità oggi.I paesi che sono effettivamente sovrani ,lo sono solamente in maniera fittizzia e relativa
-   Per gli Stati Uniti, l'obiettivo principale è quello geopolitico dell'Eurasia ... Il primato globale e l'egemonia degli Stati Uniti dipende direttamente  dal  tempo che ci metteranno a  imporre il loro dominio sul continente euroasiatico

 Gli errori della guerra in Iraq non sono solo stati tattici e strategici, ma storici. Si tratta   essenzialmente di una guerra coloniale, tentato in  epoca post-coloniale.

domenica 4 giugno 2017

LE 10 STRATEGIE DELLA MANIPOLAZIONE MEDIATICA



DI NOAM CHOMSKY
visionesalternativas.com

Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media.

1 - La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).



2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

3 - La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.

4 - La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.

5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).

6 - Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l'emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell'analisi razionale e, infine, del senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti….

7 - Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori" (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).

8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti...

9 - Rafforzare il senso di colpa. Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!

10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.

Fonte: www.visionesalternativas.com.mx



venerdì 2 giugno 2017

SE L'EUROPA DIVENTA SOLO LA PERIFERIA DELLA CULTURA USA



Da un paio di settimane un libro sta sconvolgendo la fauste certezze di Parigi. Régis Debray, che dopo aver combattuto con il Che è diventato uno degli intellettuali più corrosivi del continente da noi tradotto a singhiozzo, a causa, chissà, di triti pregiudizi ha spiegato, usando una parola volutamente ambigua e greve di storia, Civilisation, «come siamo diventati americani» (Gallimard, pagg.

240, euro 19), come mai, insomma, senza accorgercene «un tempo eravamo francesi, tedeschi o polacchi e ora siamo Yankee. E siamo felici di esserlo». Debray non è un cupo populista né un pessimista cosmico, al contrario, con sguardo regale e perfino sorridente ci mostra che ogni civiltà è un groviglio di incroci e di fraintendimenti. La «civiltà cristiana», ad esempio, è tutt'altro che «pura», va letta, piuttosto come «uno zigzagare di storie. All'inizio era un evento ebraico proclamato da Joshua detto Gesù, che un sabato, durante l'omelia, interpretò un passo della Scrittura alla luce degli eventi del suo tempo; poi diventa un moto filosofico nel II secolo che fonde il dissenso giudaico nella sfera dell'ellenismo, con lingua e categorie greche; infine è la fusione di questa teologia nell'alveo del diritto romano siamo nel III secolo e diventa il candidato a succedere alla civilizzazione romana». Un «guazzabuglio della storia» è pure Babbo Natale: «nella piazza della basilica di Digione, il 25 dicembre del 1951, il vescovo bruciò in pubblico una effigie di Santa Claus, icona del paganesimo. Babbo Natale giunge a noi, con tutti i suoi prodigi, dall'America, ma la sua origine affonda nei miti scandinavi e nei Saturnali romani e ancora più indietro, nel culto preistorico degli alberi».
Troppo intelligente per scandalizzarsi se la Francia ha svenduto la propria grandeur per un McDonald's, Debray, questo incrocio tra Cioran e Charlot, prende atto che l'Europa, ormai, «è una provincia americana», e che l'ecumenismo degli idioti e il buonismo ci hanno fatto irrimediabilmente dimenticare chi siamo. La civilizzazione americana ha una qualità diversa dalle civiltà precedenti: non s'impone tramite la persuasione culturale o la prevaricazione di una guerra. Essa «ha soppiantato l'homo politicus con l'homo oeconomicus». Propagata dai social, moltiplicata dalla bulimia digitale, questa è la prepotenza americana: piegati dal potere dei dollari, gli uomini «ormai ignorano la frattura che da Riga a Spalato ha separato l'Europa in Oriente e Occidente a causa del Filioque». Rispetto alla variazione degli indici di Borsa, la divisione tra Chiesa ortodossa e cattolica è una baruffa culturale irrilevante. In questo deserto di identità, il neo Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron è «un prodotto pienamente americano», lo si capisce dal modo in cui assapora la Marsigliese, «non con le braccia lungo il corpo, ma con una mano sul cuore, scimmiottando il modo in cui i cittadini americani ascoltano il proprio inno nazionale».
Fu Paul Valéry, tuttavia, il santino di Debray, poeta sgargiante e pensatore intransigente, ad aver capito tutto prima di tutti. Nel 1919, nel saggio intitolato La Crise de l'esprit, il poeta scrive che «l'Europa aveva in sé di che sottomettere, e guidare, e regolare a fini europei il resto del mondo». Eppure, «gli sciagurati europei», rosi da «dispute paesane, di campanile e di bottega», da «gelosie e rancori da cortile», non sono stati in grado di «farsi carico su tutto il globo della grande funzione che nella società della loro epoca i Romani avevano saputo e sostenere per secoli. In confronto ai nostri, il loro numero e i loro mezzi non erano nulla; ma nelle viscere dei polli essi trovavano più idee giuste e coerenti di quante non ne contengano le nostre scienze politiche». Chapeu. Quanto a noi, bislacchi eredi dei Romani, beh, siamo americanizzati dalla Linea Gotica in poi, da quando Celentano imitava le nevrosi di Elvis e Cinecittà si tramutava nel vecchio West.

DAVIDE BRULLO :GIORNALISTA DELLA TESTATA IL GIORNALE




giovedì 1 giugno 2017

ISRAELE STRINGE LEGAMI CON L'AFRICA E VICEVERSA

Lo slogan utilizzato da Netanyahu quasi fosse un mantra di buon auspicio prima del suo viaggio in Africa previsto per il 4 giugno è: “Israele sta tornando in Africa, e l’Africa sta tornando in Israele.” Per capire cosa queste parole significhino è doveroso tenere in considerazione l’impegno dimostrato da Tel-Aviv negli ultimi due anni per stringere i suoi legami con quello che viene considerato il “continente del futuro”.
I funzionari dell’Ufficio del primo ministro israeliano hanno annunciato questo giovedì che Bibi parteciperà al summit dei paesi membri dell’ECOWAS (la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), che si terrà in Liberia tra meno di due settimane. Questo importante evento ha spinto Netanyahu a tornare in Africa nonostante, lo scorso luglio, vi avesse già passato diverso tempo: solo dieci mesi fa infatti l’ex ufficiale del Mossad passò in Uganda, Kenya, Rwanda ed Etiopia, in quella che è stata considerata, a ragion di causa, una visita storica. Infatti erano 29 anni che un primo ministro israeliano non partecipava a un “tour africano”. Bibi stava iniziando a tessere la sua rete di rapporti, consapevole dell’importanza che l’Africa ha e che, salvo cambiamenti radicali improbabili, guadegnerà sempre più. L’impegno della Cina in Africa dovrebbe già essere una conferma di quanto, in futuro, sia probabile vedere questo continente protagonista della scena internazionale,


Il 4 giugno è prevista la sua partecipazione al summit dei paesi aderenti all’ECOWAS (che insieme rappresentano una comunità di 320milioni di persone) che, secondo il Ministero degli Esteri liberiano, si terrà nella capitale, Monrovia, città dove si incontreranno i 15 leader dei paesi facenti parte alla comunità economica, inclusi quelli di due paesi, come il Mali e la Nigeria, che di rapporti diplomatici con Israele non ne hanno ormai da tempo. Oltre a Netanyahu parteciperanno all’incontro anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, il presidente dell’Unione africana Moussa Faki e una delegazione degli uomini più influenti del Marocco.
Non è una coincidenza che nei giorni in cui Netanyahu sarà occupato nel summit di Monrovia, sia previsto l’arrivo in Israele del primo ministro etiope Hailemariam Desalegn, che si fermerà in Terra Santa per quattro giorni. Quella di Desalegn sarà la prima visita in Israele di un primo ministro etiope da più di un decennio e vuole essere la risposta al viaggio di Bibi in Etiopia dello scorso luglio. E’ comunque previsto un incontro tra i due leader quando Netanyahu avrà concluso il suo viaggio in Liberia. L’Etiopia è uno dei paesi strategicamente più importanti per Israele se il piccolo stato del Medio Oriente vuole ritagliarsi uno spazio nella cornice africana: ospita il quartier generale dell’Unione africana, fa parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e – soprattutto – il suo ex primo ministro e attuale ministro della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, la settimana passata ha vinto le elezioni per diventare il prossimo direttore della World Health Organization (WHO), primo africano a ricoprire questo ruolo.

Netanyahu ha molti difetti e la continua diminuzione dei consensi da parte della popolazione israeliana nei suoi confronti ne è la conferma. La politica interna da lui adottata non piace a molti in Israele, anche quando si parla degli insediamenti in Cisgiordania. Per quanto riguarda la politica estera, però, le sue capacità sono innegabili. Ha giocato un ruolo da protagonista (anche se dietro le quinte) nel conflitto siriano, a fianco di Stati Uniti e Arabia Saudita e in chiave anti-iraniana. Le premesse che lasciano immaginare Tel-Aviv protagonista nel futuro dell’Africa, forse anche dopo il mandato di Benjamin Netanyahu, ci sono tutte. D’altronde lo Stato di Israele, per quanto si estenda in un’area minore di quella della Toscana (20.000km² contro quasi 23.000km² della regione italiana) sa come muoversi sul palcoscenico globale. Che si lasci scappare le opportunità che l’Africa può offrire, è alquanto improbabile.

GUIDO DELL'OMO:GIORNALISTA PROFESSIONISTA DELLA TESTATA IL GIORNALE