mercoledì 12 dicembre 2012
IL Ritorno delle Plutocrazia
Di Enrico Melchionda
Ormai sono in pochi a negare che i regimi democratici stiano attraversando una crisi senza
precedenti, o siano quanto meno esposti a sfide assai ardue da superare. Naturalmente, si tratta di
sfide e problemi ben diversi da quelli che nella prima metà del Novecento condussero, in
determinati paesi, alla tragedia dei fascismi. Questa volta la malattia è diversa, ma non meno grave.
Anzi, per certi versi essa appare ancora più insidiosa, se non altro perché si presenta ovunque, fin
dentro il cuore di quelli che siamo abituati a considerare i baluardi del mondo sviluppato e della
cultura liberaldemocratica, gli stessi che seppero fronteggiare sia la sfida della democratizzazione
rivolta ai regimi liberali "monoclasse", e resistere così alla reazione fascista, sia la sfida comunista,
a cui risposero con la dichiarazione della guerra fredda e con l’istituzione dei moderni sistemi di
welfare state.
Oggi le sfide con cui si devono confrontare le liberaldemocrazie sono altre: la
globalizzazione che svuota le vecchie sovranità nazionali e rende difficile il controllo delle élite, il
multiculturalismo che minaccia le omogeneità identitarie delle popolazioni, le comunicazioni di
massa che stravolgono la partecipazione e l’informazione politica dei cittadini, il fondamentalismo
e il terrorismo internazionale che rovesciano sulle comunità politiche occidentali e sui loro equilibri
istituzionali tutta la rabbia e la disperazione accumulata dai popoli dominati. Sfide che si
presentano, inoltre, in un contesto in cui non c’è più l’antagonista sovietico a fare da contraltare e da
stimolo per gli stati capitalistici sviluppati, favorendo una qualche armonizzazione degli interessi in
campo internazionale come all’interno delle singole società nazionali.
Tra le varie modalità con cui queste sfide si presentano politicamente, ve ne sono alcune che
destano particolare preoccupazione. L’attenzione degli studiosi si è per lo più rivolta, negli ultimi
anni, ai fenomeni del populismo, o del direttismo, e dell’antipolitica, che convergono nel minare gli
aspetti rappresentativi e liberali dei regimi democratici. Ritornano qui le tematiche evocate a suo
tempo da Tocqueville e dai padri del liberalismo, quando parlavano del rischio della “tirannia della
maggioranza” e della necessità di limitarne il potere. Una chiave di lettura che viene riproposta
oggi, alla luce delle nuove tendenze plebiscitarie e delle manipolazioni dell’opinione pubblica
favorite dalla crisi delle strutture di rappresentanza e dall’amplificazione del potere mediatico, e che
coglie indubbiamente processi reali. Ma c’è un’altra chiave di lettura che comincia a farsi strada e
che, pur non essendo in contrasto con quella dominante, delinea una spiegazione diversa, quanto ad
approccio e implicazioni, della crisi della democrazia. Mi riferisco alla problematica della
plutocrazia.
Il concetto di plutocrazia ha una storia che andrebbe ripercorsa attentamente, perché mai
come in questo caso si metterebbe in luce il legame di continuità che può esistere tra parole, nozioni
e realtà. Non è questa la sede per farlo, ma può essere utile richiamarne almeno qualche passaggio.
Cominciando dall’origine del concetto, che di solito si fa risalire – come per i più importanti
concetti politici – all’antichità, forse a causa della sua etimologia inequivocabile (dal greco
ploutokratía, composto di plôutos "ricchezza" e -kratía "potere"), ma che in realtà fu usato assai
raramente in quell’epoca e comunque mai in maniera sistematica e teoricamente perspicua. Infatti il
termine si è diffuso solo in epoca moderna, e in ambito anglosassone, trovando una naturale
collocazione negli Stati Uniti dal XIX secolo in poi. Furono i movimenti populista e progressista di
fine Ottocento, in particolare, ad adottare con insistenza e a diffondere ampiamente la critica della
plutocrazia, che ritenevano dominasse la scena politica americana attraverso una forte collusione tra
politici di partito e uomini d’affari. Una critica che, pur ottenendo scarsi risultati pratici, se non
quelli di una certa moralizzazione e di un drastico (e definitivo) indebolimento dei partiti,
sedimentò tuttavia un sentimento durevole, anche se quasi sempre marginale, e soprattutto una ben
definita immagine della politica americana che ha resistito sino ad oggi.
E’ dagli Stati Uniti che il concetto di plutocrazia arrivò, per una breve e incerta vita, nel
continente europeo. Esso, ostacolato dal radicamento delle teorie marxiste, che davano conto a loro
modo del fondamento economico del potere politico, ebbe in Europa minore fortuna. Solo nei primi
decenni del Novecento andò diffondendosi, per merito degli studiosi élitisti e realisti (ivi compresi
Weber e Gramsci), specialmente ad opera dell’ultimo Pareto, secondo il quale “Il reggimento dei
popoli occidentali, che si dice democratico, è in realtà quello di una plutocrazia democratica, che
inclina ora alla plutocrazia demagogica” (il passo è del 1920, ma il concetto fu ulteriormente
sviluppato nel suo Trasformazione della democrazia). Com’è noto, il termine finì poi per essere
incorporato, e in definitiva bruciato, dal fascismo e dal nazismo. Nella loro ideologia, a parte le
qualificazioni anti-semite, la plutocrazia era identificata con le liberaldemocrazie, soprattutto con il
modello americano, e affiancata al bolscevismo in un dualismo che talora veniva fatto risalire alla
stessa matrice “giudaica”, ma che in ogni caso voleva accreditare l’immagine del fascismo come
terza via propriamente “europea”.
Non meraviglia, quindi, che dopo la guerra e l’affermazione dell’egemonia americana in
Europa la parola stessa diventasse un tabù. Bisognerà aspettare gli effetti dell’ondata di
mobilitazione degli anni sessanta per ritrovarne traccia nel discorso politico e politologico. Il
tentativo più serio, da questo punto di vista, verrà fatto dal pioniere della nuova scienza politica
europea, Maurice Duverger, che nel suo libro più anomalo (Janus, les deux faces de l’Occident,
1972) criticava, da una posizione radicale ma non marxista, i regimi liberaldemocratici, definiti
come “plutodemocrazie”. In questo modo, lo studioso francese andava a ricongiungersi con un
filone politico-sociologico che già da qualche tempo aveva rimesso in campo un tentativo analogo
negli Stati Uniti. Mi riferisco alla scuola cosiddetta neo-élitista, il cui “manifesto” può essere
considerato The Power Elite di Wright Mills, ma che si dispiegava in una serie di ricerche diverse
(vi possiamo far rientrare anche studiosi come Schattschneider e Lowi), la cui linea comune stava
nella critica dell’ideologia pluralista, considerata puramente apologetica, e nella risposta alla
domanda Who Rules America?, che dà il titolo a due bei libri di G. William Dohmoff e più o meno
esplicitamente è: la plutocrazia.
Negli ultimi anni il concetto di plutocrazia sta vivendo una nuova fioritura, tanto in America
quanto in Europa, e sembra che stia perfino acquisendo, del tutto spontaneamente, una maggiore
connotazione rispetto al passato. Lo ritroviamo sempre più di frequente sia nel linguaggio
politologico che in quello politico e giornalistico. Certo, esso continua ad essere in una certa misura
il distintivo delle culture marginali che se ne ritengono storicamente depositarie, cioè dei nostalgici
del populismo americano e dell’estrema destra europea, non solo di ascendenza fascista (è il caso
del leghismo italiano), che tra l’altro ha cercato di rinverdire il proprio strumentario sostituendo
nuovi aggettivi (es: mondialista) a quelli che accompagnavano classicamente il concetto (giudaica,
massonica). Ma ultimamente ha fatto il suo ingresso anche nel linguaggio e nella cultura di sinistra,
nei partiti e nei movimenti. Oggi negli Stati Uniti i paladini della lotta contro la plutocrazia sono
Ralph Nader e vari esponenti del partito democratico (ecome John McCain). E in Italia, sulla spinta
del fenomeno Berlusconi, hanno iniziato a preoccuparsi del problema uomini politici tutt’altro che
radicali come Giuliano Amato, mentre storici come Salvadori riscoprono in questo senso gli scritti
del sociologo liberale americano William G. Sumner. Comunque la sensibilità verso il tema della
plutocrazia sembra aver trovato il suo terreno più fertile nell’ambito dei nuovi movimenti, a
cominciare da quelli no global e pacifisti, che si oppongono alla globalizzazione neoliberista e alle
sue implicazioni sia in campo politico-sociale che nell’ambito delle relazioni internazionali.
L’immagine della società internazionale che si ricava dai documenti e dai discorsi dei no
global è quella un po’ semplificata di un sistema dominato dalle imprese multinazionali: una
“corporatocrazia”. La stessa immagine, del resto, viene usata efficacemente per descrivere il cuore
di questo sistema, cioè gli Stati Uniti. Non è difficile, in effetti, evidenziare in quale misura quella
che si presenta come una democrazia liberale sia stata corrotta dalla politica delle corporation
(corporate money politics). Basta pensare al ruolo del denaro nelle campagne elettorali, in cui
vincono i candidati che spendono di più (nel 94% dei casi al Congresso), in cui il costo per essere
eletti è mediamente di 900 mila dollari per la Camera, di quasi 5 milioni per il Senato e di ben 186
milioni per la presidenza. Basta considerare il trattamento speciale che ottengono dai parlamentari le
aziende e i gruppi di interesse in cambio di finanziamenti elettorali. Basta guardare all’attuale
amministrazione, voluta fortemente dal big business, eletta a dispetto del voto popolare e composta
da persone legate a filo doppio con le grandi corporation, se non proprio loro espressione diretta.
Insomma, pur limitandosi a questi pochi indicatori, la definizione di plutocrazia sembra
adattarsi perfettamente al sistema politico americano. Vista da questo punto di vista, la crisi della
democrazia assume una luce ben più inquietante di quanto si evinca dagli approcci di tipo liberale a
cui accennavo all’inizio. Quel che mi sembra più proficuo di questa chiave di lettura, è che essa ci
libera da una prospettiva tutto sommato conservatrice, in cui si tratterebbe semplicemente di
difendere le garanzie e gli equilibri giuridico-istituzionali oggi minacciati (anzitutto dal potere
mediatico) per ristabilire l’assetto genuinamente democratico prodotto a suo tempo dalla miracolosa
congiunzione fra sovranità popolare e costituzionalismo liberale. Al contrario, la categoria di
“plutocrazia” ha il merito di richiamare la grande acquisizione teorica dell’élitismo in modo tale da
supportare l’analisi realistica dello stato e delle tendenze dei regimi liberaldemocratici con una
critica della democrazia. Questa sarebbe davvero una novità.
Detto questo, non bisogna nascondersi, naturalmente, i limiti cui va incontro un approccio
del genere. Il concetto di plutocrazia non dà conto della relazione complessa che sussiste tra potere
politico e sistema socio-economico (classi). Non a caso esso può essere confuso con un marxismo
semplicistico, come quello che si riassume nella formula del governo “comitato d’affari della
borghesia”, mentre è del tutto estraneo al marxismo scientificamente più avvertito, com’è stato ad
esempio quello di matrice althusseriana. Eppure, non è necessariamente incompatibile con
quest’ultimo, a condizione di saper distinguere a quale livello della scala di astrazione il concetto si
collochi. Quello di “plutocrazia” è infatti un concetto molto empirico, che definisce una data forma
del potere politico dell’élite dominante, dando conto di un certo tipo di classe politica e del suo
reclutamento, di un certo tipo di rapporti effettivi tra politica e interessi, di un certo tipo di
strutturazione e dislocazione dei poteri tra le varie istituzioni e organizzazioni politiche, ecc. Questo
vuol dire, in altre parole, che non tutti i regimi liberaldemocratici sono plutocratici, ma lo sono
quelli che vedono un intervento diretto delle imprese nel processo di governo e di reclutamento del
personale politico.
Non so quale sia la strada per contrastare un sistema plutocratico. Ma, se vogliamo attestarci
sull’esperienza passata, forse un’indicazione ci può venire dal confronto tra il modello americano e
quello europeo del Novecento. Da essi emerge l’importanza del ruolo dei partiti di massa. Mentre il
loro smantellamento in America ha aperto la strada alla plutocrazia, la partitocrazia europea del
secondo dopoguerra consentì alle classi subordinate di bilanciare in qualche misura il potere del
denaro, ottenendone benefici concreti non indifferenti. Purtroppo oggi, per ragioni che non è
possibile esporre in questa sede, rimane ben poco di questo modello. Anche l’Europa sembra essersi
incamminata verso il modello plutocratico, con il nostro paese a fare da battistrada. Può darsi che
alla fine si prenda un’altra strada, che difficilmente potrà essere quella di un ritorno al passato, ma
se è davvero alla democrazia che ci si vorrà ispirare dovrà essere di sicuro una strada ancora una
volta contrassegnata dalla partecipazione e dalla rappresentanza del popolo.
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domenica 9 dicembre 2012
Contro la retorica dell'orizzontalità
La funzione di figure, ruoli e soggetti che fanno da tramite è anche quella di costruire una traduzione simbolica delle cose, perché ci obbligano a non ridurre la vita alla nostra esperienza
Mettere tutto e tutti sullo stesso piano, pensando in questo modo di rifiutare gerarchie e doveri per avere una maggiore libertà, azzera i legami di una comunità Che invece sono decisivi come collanti sociali
La società orizzontale
Dalla scuola ai sindacati, dai partiti agli editori fino ai critici, le istituzioni sono sempre più discusse
In nome di un presunto rapporto diretto che cancella la mediazione
di Massimo Recalcati Repubblica 25.11.12
Nel nostro tempo spira un vento forte in direzione contraria alla funzione sociale delle istituzioni. Gli esempi sono molteplici e investono anche la nostra vita collettiva: dalla famiglia alla Scuola, dai partiti ai sindacati, dall’editoria alla vita affettiva, assistiamo ad una caduta tendenziale della mediazione e della sua funzione simbolica. Di fronte ad una bocciatura i genitori tendono ad allearsi con i loro figli più che con gli insegnanti; possono cambiare scuola o impugnare la loro causa rivolgendosi ai giudici del Tar; il ruolo educativo da parte di un adulto suscita spesso il sospetto di un abuso di potere; la Rete offre la possibilità a chi ritiene di essere uno scrittore di farsi il proprio libro online senza passare dal giudizio degli editori; la figura del critico, che faceva da ponte tra opera e pubblico, è oramai azzerata; le amicizie non passano più dalla mediazione indispensabile dell’incontro dei volti e dei corpi, ma si coltivano in modo immateriale sui
social networks; di fronte alla dimensione necessariamente snervante del conflitto politico si preferisce l’opzione della violenza o dell’insulto. Anche i sintomi che affliggono la vita delle persone hanno cambiato di segno; mentre qualche decennio fa apparivano centrati sulle pene d’amore, sull’importanza irrinunciabile del legame sociale, oggi non è più la rottura del legame a fare soffrire, ma è l’esistenza del legame che viene avvertita come fonte di disagio.
Un disagio diffuso soprattutto tra i ragazzi. Milioni di giovani vivono, nel mondo cosiddetto civilizzato, come prigionieri volontari. Hanno interrotto ogni legame con il mondo, si sono ritirati nelle loro camere, hanno abbandonato scuola e lavoro. Questa moltitudine anonima preferisce il ritiro, il ripiegamento su di sé, alla difficoltà della traduzione imposta dalla legge della parola. È un segno dei nostri tempi. Il Terzo appare sempre più come un intruso. Eppure non c’è vita umana che non si costituisca attraverso la mediazione simbolica dell’Altro. Il pianto angosciato di un bambino nella notte ci chiama alla risposta, alla presenza, ci convoca nella nostra responsabilità di accogliere la sua vita. Il mito del farsi da se stessi, dell’autogenerazione, come quello del farsi giustizia da sé, è un mito che il liberismo contemporaneo ha assunto come un suo stemma. In realtà nessuno è padrone delle sue origini, come nessuno può essere salvatore del mondo. Non esiste comunità umana senza mediazione istituzionale, senza mediazione simbolica, senza il lavoro paziente della traduzione della lingua dell’Altro. Divento ciò che sono solo passando dalla mediazione dell’Altro (famiglia, istituzioni, società, cultura, lavoro, ecc.) e non solo attraverso le esperienze personali che ho fatto. Nel nostro tempo questa mediazione necessaria alla vita è in crisi. Nel nome di una società orizzontale che esalta i diritti degli individui senza dare il giusto peso alle loro responsabilità evapora la dimensione della mediazione simbolica: fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo. Questo declino della mediazione simbolica non significa solo che il nostro tempo ha smarrito la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità e scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo (cattolicesimo, socialismo, comunismo, ecc) e le sue istituzioni disciplinari (Stato, Chiesa, Esercito) assicuravano, ma manifesta una sorta di mutazione antropologica della vita. L’individualismo si afferma nella sua versione più cinica e narcisistica investendo la dimensione della mediazione simbolica di un sospetto radicale: tutte le istituzioni che dovrebbero garantire la vita della comunità non servono a niente, sono, nella migliore delle ipotesi, zavorre, pesi arcaici che frenano la volontà di potenza dell’individuo o, nella peggiore delle ipotesi, luoghi di sperpero e di corruzione osceni. Ma come? Non è compito delle istituzioni, come dichiarava Lacan, porre un freno al godimento individuale rendendo possibile il patto sociale, la vita in comune?
La violenza di questa crisi economica ha prodotto giusta indignazione e sfiducia verso tutto ciò che agisce in nome della vita pubblica, verso tutto ciò che sfugge al controllo diretto del cittadino. Le istituzioni non l’hanno saputa avvertire, frenare, governare. Il caso della politica si impone come esemplare. Il luogo che secondo
Aristotele deve riuscire a determinare l’integrazione pubblica delle differenze individuali sotto il segno del bene della polis – il luogo più eminente della traduzione simbolica – si è rivelato corrotto dalla affermazione più scriteriata degli interessi individuali. Il politico liberato dal peso dell’ideologia si è ridotto a un furfante che ruba per se stesso. Eppure non si può rinunciare così facilmente alla politica, l’arte della mediazione.
Perché i rischi sono evidenti, li abbiamo visti in questi anni, tra leadership carismatiche e fondazioni mitiche. Li vediamo oggi quando avanza un nuovo populismo che si appoggia sulla democrazia tecnologica garantita dalla Rete per evitare la “truffa” della mediazione politica. Ma il populismo non è forse una forma radicale di pensiero anti-istituzionale che rigetta la mediazione simbolica affermando l’illusione di una democrazia diretta puramente demagogica?
In questo senso il liberale conservatore Lacan replicava alle critiche degli studenti del ’68 che gli rimproveravano di non autorizzare la rivolta contro le istituzioni che non esiste alcun “fuori” dalla mediazione imposta dal linguaggio. Il destino degli esseri parlanti è infatti quello della traduzione. Lacan disillude l’impeto rivoluzionario degli studenti: non esiste possibilità che una rivolta animata dalla rottura con il campo istituzionale del linguaggio non ricada nella stessa violenza dalla quale avrebbe voluto liberarsi. La rivoluzione porta sempre con sé un nuovo padrone. L’invocazione di una democrazia diretta che reagisca in modo anti-istituzionale alla debolezza e alla degenerazione
insopportabile delle istituzioni rischia di spalancare il baratro di un populismo che finisce per gettare via insieme all’acqua sporca anche il bambino. Il grillismo sbandiera una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta, giudicandola un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti.
Ma è un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica, collettiva e individuale insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone, finisce per rigenerare il mostro che giustamente combatte. Non è solo un insegnamento della storia ma anche, più modestamente, della pratica della psicoanalisi. La rabbia verso i padri, il puro rifiuto di tutto ciò che si è ricevuto, il disprezzo dell’eredità, rischia sempre di generare una protesta sterile, che impedisce di discriminare l’oro dal fango, che fa di tutta l’erba un fascio, e, dulcis in fundo, che mantiene legati per sempre al padre di cui ci si voleva liberare, rieditandone il volto mostruoso e autoritario.
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