Grande discussioni tra gli studiosi sulla semantica di schiavo, captivo, servo, campi lessicali e giuridici molli quando non evanescenti. Qualche volta negoziabili dagli stessi soggetti. Questi beni mobili umani potevano assumere configurazioni molto varie, la logistica poteva mutare secondo i luoghi e i tempi, ma erano unificati dal fatto di essere merce che, come tale, può essere comprata, venduta, rivenduta, ereditata e anche, in qualche caso, affrancata. Oltre che malmenata, angariata e stuprata. Sulle variate sponde mediterranee maturava una interdipendenza da reciprocità, un entanglement sociale e culturale tra predatori, mercanti, padroni di schiavi, vittime della schiavitù, addetti alla compravendita o al riscatto, rinnegati e redenti, predicatori di guerre sante e crociate. Una densa rete di comunicazione da attrito, a cui sono interessate molte città italiane, non necessariamente di mare. Una formazione storica diversa dalla tratta coloniale atlantica risucchiata da una economia agraria “industriale”, le piantagioni, da nuovi imperativi di accumulazione finanziaria e da una visibile linea del colore che invece era secondaria nel Mediterraneo, anche se non assente.
Predominanti invece le linee geografiche e religiose. Queste ultime apparentemente drastiche – i cristiani non devono schiavizzare i cristiani, i musulmani i musulmani – nella realtà si sbriciolavano in tante eccezioni. Se eri greco, quindi cristiano ortodosso, ergo scismatico, dunque orientale, perciò turco, sinonimo di musulmano, in conclusione: eri schiavizzabile. Se presentavi una conversione credibile e un battesimo certificato allora, musulmano o che altro, potevi aspirare e una non automatica liberazione. Un Mediterraneo espanso in cui la cartografia della circolazione dei corpi asserviti si intrecciava non solo nel verso Nord/Sud, ma anche Est/Ovest, dal Mar Nero e steppe russe al Portogallo, Scandinavia e sub Sahara. Lo storico Chouki El Hamel ha dimostrato ( Black Morocco. A history of slavery, race, and islam; Cambridge Un. Press 2013) come la schiavizzazione delle popolazioni subsahariane gnawa, per noi oggi delizie musicali, nei paesi del Maghreb appartenga alla cultura del silenzio, al rifiuto sistematico a trattare pubblicamente il tema.
Una reticenza diffusa ovunque che sorvola anche sulla propulsione a energia umana delle galere/galee ai cui remi sudavano schiavi di ogni tipo e gli sventurati buonavoglia che si imbarcavano volontariamente. Che gli schiavi non fossero un lusso aristocratico, ma una parte della forza lavoro in tutti i settori dell’economia moderna è sostenuto e documentato da una giovane storica, Giulia Bonazza, in un libro prelibato, se fosse un piatto, la cui impronta non potrà d’ora in avanti essere sottovalutata. Fin dal titolo Abolitionism and the Persistence of Slavery in Italian States, 1750-1850( PalgraveMacmillan 2019), la visuale si fa più ampia del solito e l’indagine granulare su cinque città italiane, non schiaviste, ma con schiavi, consente di concludere che la decisa condanna della tratta atlantica e l’abolizionismo non hanno determinato la fine della schiavitù negli Stati italiani e nel Mediterraneo. Che la schiavitù è una istituzione del-l’Italia moderna e il lavoro coatto pure. Che l’invisibilità degli schiavi, delle schiave e del loro lavoro è il risultato di una memoria egemone che si regge sulla nostra vista corta e sui nostri occhiali appannati a guardare il legame tra passato e presente.

Claudio Canal