sabato 25 luglio 2020

SCHIAVITU', IL LATO OSCURO DELLA MODERNITA' EUROPEA

 Per chi pensa solo al Black lives matter

Recenti studi hanno ormai acclarato che lo schiavismo non va affatto relegato all’antichità o ai negrieri americani: anche sulle sponde del Mediterraneo fu ampiamente praticato


 L’oblio che l’ha messa a tacere ci spinge a guardare con occhi smarriti le mille forme di lavoro servile, forzato, para/schiavistico, la tratta di esseri umani, che pullulano nel nostro presente e a interpretarli come eventi insospettabili, inediti, mai visti. Eppure in tempi recenti storici e storiche non si sono girati dal-l’altra, hanno compulsato gli archivi di dolore e di riscatto. Hanno fatto molto bene il loro mestiere. Alcune volte riesumando rare primizie, per esempio Le schiave orientali in Italia, pubblicato da Salvatore Bongi su “Nuova Antologia” del 1866 in cui si parla delle migliaia di schiave tartare, georgiane ecc. in Italia nel XV secolo di sgargiante Umanesimo. Soprattutto hanno messo a soqquadro gli archivi con un occhio non più intimorito dal batticuore di trovare la schiavitù confermata dai documenti. Hanno trasformato una pagina storiografica sostanzialmente bianca in una fittamente scritta, abilitando così una nuova parola sul mondo. Ma il travaso di questa pagina nella mentalità collettiva è ancora di là da venire. Un trascinamento dalla storiografia al resto della società è ancora da farsi con braccia robuste e fini intelligenze. Il pioniere di questo fare storia è Salvatore Bono. Ha fondato un metodo e aperto un campo di ricerca illuminando l’altra faccia della luna. Il punto focale della prospettiva è il Mediterraneo, mare di mari, oggetto storico iperreale, ma sfuggente, contenitore di diversità radicali e di somiglianze esangui. Bono (recente il suo Guerre corsare nel Mediterraneo: una storia di incursioni, arrembaggi, razzie, Il Mulino 2019) avanza una congettura: dal ’500 al ’800 nell’area mediterranea sono stati ridotti in schiavitù due milioni di uomini e donne (e bambini) dal mondo musulmano mediterraneo in Europa, un milione di europei verso il medesimo campo musulmano e due milioni di africani neri nell’universo islamico. Ampliando lo sguardo ha successivamente prospettato sette milioni di schiavi e schiave. Vite non nude, dotate invece di identità, relazioni, storia. Un mercato comune molto sviluppato con quotazioni e magistrature dedicate, come il Registro delle Prede o l’Istituto per la Redenzione dei cattivi, da intendersi come captivi, prigionieri di guerra o della guerra di corsa, che non è una gara podistica bensì pirateria autorizzata da una qualche autorità riconosciuta. Poi ancora con società di intermediazione e brokeraggio, associazioni/confraternite specializzate in trattative, vertenze, diplomazia, cambiavalute.


Grande discussioni tra gli studiosi sulla semantica di schiavo, captivo, servo, campi lessicali e giuridici molli quando non evanescenti. Qualche volta negoziabili dagli stessi soggetti. Questi beni mobili umani potevano assumere configurazioni molto varie, la logistica poteva mutare secondo i luoghi e i tempi, ma erano unificati dal fatto di essere merce che, come tale, può essere comprata, venduta, rivenduta, ereditata e anche, in qualche caso, affrancata. Oltre che malmenata, angariata e stuprata. Sulle variate sponde mediterranee maturava una interdipendenza da reciprocità, un entanglement sociale e culturale tra predatori, mercanti, padroni di schiavi, vittime della schiavitù, addetti alla compravendita o al riscatto, rinnegati e redenti, predicatori di guerre sante e crociate. Una densa rete di comunicazione da attrito, a cui sono interessate molte città italiane, non necessariamente di mare. Una formazione storica diversa dalla tratta coloniale atlantica risucchiata da una economia agraria “industriale”, le piantagioni, da nuovi imperativi di accumulazione finanziaria e da una visibile linea del colore che invece era secondaria nel Mediterraneo, anche se non assente.
Predominanti invece le linee geografiche e religiose. Queste ultime apparentemente drastiche – i cristiani non devono schiavizzare i cristiani, i musulmani i musulmani – nella realtà si sbriciolavano in tante eccezioni. Se eri greco, quindi cristiano ortodosso, ergo scismatico, dunque orientale, perciò turco, sinonimo di musulmano, in conclusione: eri schiavizzabile. Se presentavi una conversione credibile e un battesimo certificato allora, musulmano o che altro, potevi aspirare e una non automatica liberazione. Un Mediterraneo espanso in cui la cartografia della circolazione dei corpi asserviti si intrecciava non solo nel verso Nord/Sud, ma anche Est/Ovest, dal Mar Nero e steppe russe al Portogallo, Scandinavia e sub Sahara. Lo storico Chouki El Hamel ha dimostrato ( Black Morocco. A history of slavery, race, and islam; Cambridge Un. Press 2013) come la schiavizzazione delle popolazioni subsahariane gnawa, per noi oggi delizie musicali, nei paesi del Maghreb appartenga alla cultura del silenzio, al rifiuto sistematico a trattare pubblicamente il tema.
Una reticenza diffusa ovunque che sorvola anche sulla propulsione a energia umana delle galere/galee ai cui remi sudavano schiavi di ogni tipo e gli sventurati buonavoglia che si imbarcavano volontariamente. Che gli schiavi non fossero un lusso aristocratico, ma una parte della forza lavoro in tutti i settori dell’economia moderna è sostenuto e documentato da una giovane storica, Giulia Bonazza, in un libro prelibato, se fosse un piatto, la cui impronta non potrà d’ora in avanti essere sottovalutata. Fin dal titolo Abolitionism and the Persistence of Slavery in Italian States, 1750-1850( PalgraveMacmillan 2019), la visuale si fa più ampia del solito e l’indagine granulare su cinque città italiane, non schiaviste, ma con schiavi, consente di concludere che la decisa condanna della tratta atlantica e l’abolizionismo non hanno determinato la fine della schiavitù negli Stati italiani e nel Mediterraneo. Che la schiavitù è una istituzione del-l’Italia moderna e il lavoro coatto pure. Che l’invisibilità degli schiavi, delle schiave e del loro lavoro è il risultato di una memoria egemone che si regge sulla nostra vista corta e sui nostri occhiali appannati a guardare il legame tra passato e presente.

Claudio Canal



martedì 3 marzo 2020

LA SVEZIA SI SCOPRE TRANS,TRA LE GIOVANI DISFORIA DI GENERE IN CRESCITA 1500%

europa.today.it – Redazione Bruxelles
Sono sempre di più le giovani svedesi che si sentono intrappolati in un corpo che non li rappresenta, e questo sta facendo aprire un forte dibattito nel Paese sull’opportunità o meno di sostenere anche a livello pubblico cure ormonali e operazioni per cambiare il proprio sesso.
Disforia in crescita
Un rapporto del Board of Health and Welfare del Paese ha ha mostrato che c’è stato un aumento di ben il 1.500% tra il 2008 e il 2018 nelle diagnosi di disforia di genere tra le ragazze tra i 13 e i 17 anni. Lo studio ha anche sottolineato che il 32,4% di loro soffriva anche di ansia, il 28,9% depressione e 15,2% di autismo. Tra le persone trans i livelli più alti di depressione e ansia indicando spesso la difficile esperienza che vivono in un corpo che si scontra con la loro identità di genere, in particolare quando non si sentono accettati nella società. Le leggi nazionali sul matrimonio omosessuale hanno contribuito far diminuire il numero di suicidi e il governo tempo fa stava anche per andare oltre.
Il cambio di sesso per i giovani
Come racconta il Guardian nell’autunno del 2018, i socialdemocratici aveva proposto una nuova legge che puntava a ridurre l’età minima per le cure mediche di riassegnazione del sesso da 18 a 15 anni, eliminando ogni necessità per i genitori di acconsentire e che consentiva anche ai minori di 12 anni di cambiare il proprio genere legale. Ma il dibattito sul tema, che è infuriato su diversi i media, ha fatto rallentare le cose e sorgere non pochi dubbi sull’opportunità di un intervento del genere.
Il dibattito
A marzo dell’anno scorso Christopher Gillberg, psichiatra dell’Accademia Sahlgrenska di Göteborg, ha scritto un articolo sul giornale Svenska Dagbladet avvertendo che il trattamento ormonale e la chirurgia sui giovani erano un grande azzardo che rischiava di diventare uno dei peggiori scandali medici del paese. Diversi programmi televisivi hanno portato alla luce casi di persone che hanno cambiato sesso e poi si sono pentiti di questa operazione irreversibile, facendo sorgere molti interrogativi sull’opportunità di consentirla anche a minorenni. A finire nel mirino di un programma di giornalismo investigativo, chiamato Uppdrag Granskning, è stato il team dell’ospedale universitario Karolinska di Stoccolma, specializzato nel trattamento di minori con disforia di genere. L’istituto è stato criticato per aver effettuato una doppia mastectomia su ragazzi di 14 anni e accusato di non aver valutato adeguatamente se altre questioni psichiatriche o di sviluppo dei pazienti avrebbero potuto spiegare meglio la loro infelicità rispetto al proprio corpo.
Disegno di legge in standby
Mentre infuriava il dibattito il disegno di legge che avrebbe abbassato l’età minima per la riassegnazione del sesso è stato accantonato e al Board of Health and Welfare è chiesto un nuovo studio sugli impatti di un eventuale intervento che è ora atteso per il prossimo 31 marzo.

mercoledì 25 settembre 2019

LA MATERIA E' SCHIZOFRENICA E I PENSIERI FRIZZANO .IPOTESI SERIA SULLA COSCIENZA

Pochi anni fa un team di scienziati del Laboratorio Lumes di Losanna (guidati da un ricercatore italiano) ha offerto al mondo un’immagine incredibile: un gruppo di fotoni che si comporta come delle onde e un altro gruppo che allo stesso tempo si comporta come delle particelle. Sarebbe un po’ come fissare in un’istantanea di Dr Jekyll e Mr Hyde. Una foto impossibile perché se c’è l’uno non può esserci anche l’altro.
Eppure è così, la materia porta con sé una dualità intrinseca, nel mondo microscopico delle particelle funziona in un modo e in quello macroscopico, quello normale in cui viviamo ogni giorno, funziona in un altro. Da un lato le leggi della statistica, dall’altro quelle di causa ed effetto. Il mondo è lo stesso e tuttavia, come nel romanzo di Stevenson, cambia il comportamento del protagonista.
GUARDA ANCHE: Cervello, meraviglie e misteri della mente umana
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La scoperta di Max Plank: l’anima della materia è schizofrenica

Da quando Max Plank agli inizi del ‘900 ha tirato fuori quella che riteneva solo un’utile ipotesi per risolvere un problema pratico (gli era stato chiesto di trovare una soluzione per ottenere più luce dalle lampadine a incandescenza ottimizzandone i consumi), oltre ad avere lampadine più efficienti ci siamo ritrovati con un nuovo modo di concepire la realtà. Dopo una serie di fallimenti, Plank riesce infatti a far quadrare i suoi calcoli solo ipotizzando la luce non più come una forza continua ma come una realtà discreta composta da tanti “pacchetti” di energia.

L’ipotesi, a detta dello stesso Plank, “puramente formale, che non mi ha dato più di tanto da pensare”, segna l’inizio della meccanica quantistica. Tutto cambia. Si scopre che a livello atomico c’è una parte di materia che non obbedisce ai rapporti deterministici, che il mondo descritto da Newton non è più il mondo.
E la luce? Può essere allo stesso tempo ondulare e corpuscolare, dipende dallo strumento che noi adottiamo per misurarla. Nel cuore delle cose abita la contraddizione, come quella di Dr Jekyll-Mr Hyde l’anima della materia è schizofrenica. La fisica si complica terribilmente.

Mente e cervello: nuove idee su un dibattito antico

Ecco, se c’è un merito evidente nell’ultimo lavoro di Michael Gazzaniga, “La coscienza è un istinto. Il legame misterioso tra il cervello e la mente”, è quello di aver saputo fare sintesi tra meccanica quantistica e biologia della mente. Diciamoci la verità, quello che Richard Feynamn ebbe a dire a proposito della fisica quantistica, “Penso che nessuno la comprenda”, può oggi dirsi anche a proposito del dibattitto sulla natura del pensiero. Nessuno ne capisce più di tanto, e non è un caso se la bibliografia sul tema sia ricchissima. Meno se ne sa, più se ne può dire. Lo scienziato americano prova tuttavia a mettere un punto. Ci riesce? Non importa, quel che conta è che in questo libro ci sono delle idee. Se non in tutto almeno nella metà. 

Niels Bohr e l’idea della complementarità

Superati primi sei capitoli (in tutto i capitoli sono dieci), circa 200 pagine in cui anche Gazzaniga cade nell’irresistibile tic di tutti gli scienziati che si occupano di temi di spessore eminentemente umanistico, quello di sentirsi in dovere di ricamare rapidi (?) excursus storico-filosofici su anima, res cogitans, cervello e mente, eccetto queste scolastiche premesse ci si imbatte in pagine in cui si respira qualcosa di nuovo.
Potete essere dei materialisti radicali e pensare che i pensieri siano solo combinazioni fisico-chimiche, potete credere in qualche forma di dualismo e ritenere la mente un software indipendente dall’hardware del corpo (mai sentito parlare di transumanesimo?), potete pensarla come volete, ma alla fine rimane da colmare il divario ontologico tra due ordini di fenomeni, quello oggettivo-neurale e quello soggettivo-mentale.
Da un lato c’è la cosa palpabile che chiamiamo cervello e dall’altro quella impalpabile che chiamiamo pensiero. Alcuni ritengono che sia un divario incolmabile. Secondo Gazzaniga non lo è. O almeno non lo è più grazie ai contributi teorici della fisica quantistica, a cominciare dall’idea di “complementarità” sviluppata da Niels Bohr. “Un aspetto gravemente sottovalutato della ricerca fisica e matematica è l’idea della complementarità: il principio secondo cui una stessa entità può ammettere due tipi di descrizione e appartenere a due diversi ordini di realtà.
Forse potremmo far leva su questa nozione per colmare il divario in apparenza insormontabile tra mente e cervello? Forse la categoria della complementarità può aiutarci a capire lo scarto esplicativo che separa la realtà del mondo fisico, la materialità del nostro cervello, e la realtà dell’esperienza soggettiva che sembra costituire un che di immateriale?” (p. 221). “Io penso di sì”, risponde lo scienziato.

Howard Patee e la fisica dei simboli

A questo punto Gazzaniga riprende le ricerche di Howard Pattee, eclettico genio del panorama scientifico americano, secondo cui a differenza di quel che siamo stati abituati a credere la comprensione dello scarto tra cervello e pensiero non va rintracciata al culmine del processo evolutivo ma alla sua origine. Inquadrato in un percorso di complessità crescente dell’organizzazione del vivente, si è finora posto il problema del divario mente-cervello all’estremità sbagliata dell’evoluzione.
Secondo Pattee la dualità non è un fenomeno che emerge con la formazione di un organo complesso come il cervello ma un fenomeno che nasce con la vita stessa. “Lo scarto tra il vivente e in non vivente è la divaricazione alla base del divario tra la mente e il cervello, e fornisce un quadro di riferimento per concettualizzare il problema”. Se materia inerte e materia vivente sono entrambe composte di corpuscoli inorganici in movimento, se organismi e cose sono fatte della stessa sostanza, perché solo un tipo di materia è in grado di replicarsi ed evolvere?
Sulla scorta del lavoro di John Von Neumann sul suo celebre “automa”, una macchina che avrebbe dovuto potersi replicare ed evolvere, e sulle sue intuizioni sull’origine informazionale della vita, Pattee elabora una “fisica dei simboli”, spiega la differenza tra leggi e regole, le prime inderogabili e universali (un’auto rimane in stato di moto finché una forza uguale e contraria non la ferma o finché non esaurisce l’energia), le seconde flessibili e locali (un auto in Italia si guida sulla sinistra, in Scozia sulla destra ma, se non vi controllano e siete in una zona isolata, potete anche guidarla come vi pare), e su questa scorta illustra la doppia natura dei simboli per eccellenza della mondo vivente, le molecole di Dna.

 Il sistema semiotico: ogni cellula produce significati

“In una delle loro due vite i simboli sono fatti di materia tangibile soggetta alle leggi di Newton che si occupa di vincolare il processo di costruzione per mezzo della sua struttura fisica. Eppure nella sua seconda vita, in quanto ricettacolo di informazioni, i simboli ignorano quelle leggi” (p. 245). Gli studiosi di informazione non si occupano del lato materiale-oggettivo, i biologi molecolari non si occupano del lato simbolico e soggettivo, così non viene alla luce il carattere complementare del simbolo.
“È proprio questa articolazione naturale simbolo-materia a differenziare la vita dai sistemi fisici non viventi” dice Pattee. Da Patte Gazzaniga passa alla biosemiotica teorizzata da Marcello Barbieri, biologo teorico in forza all’Università di Ferrara, e mette a fuoco la capacità intrinseca di ogni singola cellula vivente di essere un sistema semiotico, ovvero una forza in grado di produrre segni e significanti. “Il Dna è l’esempio primordiale di una serie di informazioni simboliche (le sequenze dei nucleotidi) capace di controllare una funzione materiale (l’operato degli enzimi) grazie a un codice governato da regole” (p. 253).
Eccola la complementarità di Bohr: due modi di descrizione, un solo sistema. Dr Jekyll e Mr Hyde: due personalità una sola persona. Bohr l’aveva immaginata per spiegare la natura duplice della luce (onda-particella), la meccanica quantistica per capire il funzionamento del mondo subatomico, la biologia informazionale per dare un senso all’esistenza simultanea di leggi causali e regole soggettive e, ora, Gazzaniga, la estende allo studio del cervello facendone una cornice plausibile per rinnovare la potenza esplicativa di teorie e concetti che, da soli, non ci hanno finora condotti lontano.
La teoria dei moduli cerebrali di Edelman, l’architettura stratificata degli strati encefalici di Friedlander, il nesso emozioni-coscienza spiegato da Damasio, la sua ubiquità (sono per esempio impressionanti i casi di split-brain studiati dal suo team: in cervelli sottoposti a resezione del corpo callosi, ovvero divisi in due, si attiva un secondo sistema cosciente sganciato dal primo), animano da anni il dibattito sulla natura della coscienza e il merito dello scienziato californiano è quello di aver dato loro nuova luce al cospetto di un’idea nata dalla fisica, mutata dalla biologia e ripescata dalla filosofia.

La coscienza? Un fenomeno effervescente

La complementarità di Bohr da inoltre senso nelle intenzioni di Gazzaniga anche alle “bolle”. Sì, bolle. “I contenuti dei vari moduli [cerebrali] salgono in superficie come le bolle che affiorano a pelo d’acqua di una pentola a fuoco” (p. 270). I circuiti neurali esibiscono struttura fisica e simbolica e questa duplice struttura governa i propri prodotti, i pensieri. Secondo Gazzaniga ogni processo neurale ha il potenziale per produrre un fenomeno cosciente e “ciascun evento mentale è gestito da moduli cerebrali dotati della capacità di renderci coscienti della loro elaborazione”.
Gazzaniga chiama quindi bolle l’esito finale dell’elaborazione dei circuiti neurali, laddove ciascun circuito è deputato a specifiche funzioni e di cui il cervello umano è ampiamente dotato. L’esperienza cosciente sarebbe dunque il risultato dell’attività di una miriade di bolle in competizione organizzate da un sistema evoluto nel tempo sotto la pressione della selezione naturale. Il dibattito sulla coscienza a volte sembra dimenticare che il cervello umano si è evoluto per accrescimento, aggiungendo successivi strati di complessità.
Ogni strato, secondo Gazzaniga, è governato da regole indipendenti per l’elaborazione e il trasferimento del suo contenuto, ovvero della sua bolla. Ora, scrive lo scienziato, “la cosa più probabile è che una specifica bolla venga proiettata al centro della scena da uno strato di controllo governato da un protocollo fatto di regole arbitrarie ma selezionate per aver saputo fornire (nel corso dell’evoluzione) alla coscienza le informazioni più affidabili e pratiche di una certa situazione” (p. 290).
Un po’ quello che nella teoria di William James accade per gli istinti. “Un istinto – scrive James in “What is an istinct” nel 1887 – è la capacità di agire in modo da produrre determinati fini ma senza la precognizione di quei fini e senza avere appreso che cosa occorre fare”. Questo vale per gli istinti più semplici, mentre per quelli più complessi James fa riferimento a sequenze coordinate frutto di una competizione tra i singoli istinti di base.
Qualcosa di simile accade alle effervescenze della coscienza, frutto della competizione tra singole bolle collegate in un’unica sequenza in modo da regalarci l’illusione di una continuità nel tempo. In questo senso la coscienza è un istinto presente in tutti gli organismi viventi dotati di strati cerebrali. Compito delle neuroscienze di domani sarà quello di imparare a usare il linguaggio della complementarità per cogliere il modo in cui la realtà fisica dei neuroni coopera con quella simbolica delle dimensioni mentali. Per capire, cioè, come Dr Jekyll sia anche Mr Hyde.
Cristian Fuschetto-Giornalista scientifico del Mattino e Filosofo Morale

martedì 27 agosto 2019

UK :TRAFFICANTI DI ESSERI UMANI A CACCIA DI SENZATETTO DA SCHIAVIZZARE

Universo Dickensiano





Sempre più spesso nelle metropoli britanniche, le mafie si infiltrano nelle associazioni di assistenza per adescare i senzatetto per sfruttarli nei cantieri, nei campi, nell'accattonaggio
 


    È facile conquistare la fiducia di chi trascorre la gelida notte londinese sotto i ponti, sulle panchine delle stazioni, nei sottoscala dei lussuosi palazzi del centro. Basta un sorriso, l’offerta di un pasto caldo o di una sigaretta e, magari, un saluto intenzionalmente rivolto non in inglese ma in rumeno o polacco. È questa la strategia utilizzata da spregiudicati trafficanti di vite umane che, infiltrati come volontari nelle associazioni impegnate nell’assistenza ai senzatetto, reclutano tra quanti vivono ai margini delle città – nella capitale come a Brighton, Manchester e Bristol – nuove leve per i loro sporchi affari: accattonaggio, prostituzione, furto.
    L’allarme arriva da Unseen, una fondazione selezionata dal governo britannico nel 2016 per gestire una linea telefonica a cui segnalare episodi di schiavitù moderna. In due anni e mezzo, i sospetti casi di abusi, violenza e avviamento forzato alla delinquenza di uomini e donne senza fissa dimora registrati dagli operatori della Onlus sono stati 350. «I trafficanti li adescano per strada, nei dormitori o alle mense per i poveri con la falsa promessa di un lavoro e di buoni guadagni», spiega Andrew Smith, responsabile di Hull Homeless, partner di Unseen. A conquistarli, talvolta, può bastare un falso abbraccio consolatore. Sfiniti dalla stanchezza della vita in strada, molti abboccano ritrovandosi, di lì a poco, intrappolati in situazioni, forse, anche peggiori di quelle vissute da senza tetto. Molti sono costretti a mendicare ma la maggior parte si ritrova a fare i conti con ore e ore di duro lavoro retribuito, se va bene, con appena qualche sterlina al giorno. La malavita li “ingaggia” per cantieri, autolavaggi, campi agricoli, macelli. Spesso vengono impiegati anche come giostrai e scaricatori di porto. Le donne sono in gran parte condannate alla prostituzione forzata. Alcune vengono, invece, forzate a massacranti giornate di lavoro come cameriere, addette alle pulizie o ai “nail bar”, i centri specializzati nel manicure.
    La storia di Pavel, rumeno, è una delle tante. Per settimane, l’uomo è stato costretto da una banda di albanesi a lavorare in un autolavaggio senza ricevere alcun compenso. Gli sfruttatori non gli concedevano nemmeno un pasto caldo. La notte, Pavel doveva dormire sul pavimento di una insana dimora offertagli come rifugio. La sua liberazione è arrivata quando, dopo essere stato pestato di botte e privato dei suoi documenti, ha deciso di scappare e tornare a vivere per strada. Che la vita sotto i ponti possa essere persino più sicura e dignitosa di quella in cui si ritrovano tanti degli invisibili sfruttati dalla criminalità lo dimostra un altro dato evidenziato dal rapporto: almeno 234 sono state in due anni e mezzo le persone che hanno scelto la strada solo per sfuggire alla violenza dei moderni lavori forzati. Secondo la fondazione Walk Free, gli schiavi della società contemporanea, nel Regno Unito, sono almeno 136mila, un numero dieci volte superiore a quello registrato nel 2013. Sono disperati, spesso sopravvissuti ai maltrattamenti solo grazie allo stordimento dell’alcol, potenzialmente destinati ad ingrossare le fila del già vasto esercito britannico degli homeless: oggi, oltre 320mila; circa 8.900 solo a Londra. Maisa, 56 anni, in fila alla mensa dei poveri di Stoke Newington, a Londra est, è stata clochard per oltre due mesi.
    «So come si muovono quelli che cercano di reclutarti, ma io sono stata brava a evitarli», racconta. «Il segreto per non finire nei loro giri – raccomanda – è essere forti, non fidarsi, e evitare in tutti i modi di parlargli anche solo per un attimo. Mi sono salvata perché cambiavo il mio rifugio ogni giorno, non sceglievo mai lo stesso così nessuno poteva venirmi a cercare. L’unico che ho preferito è stato il bus notturno numero 148, una delle linee più lunghe di Londra. La notte, viaggiando di continuo tra White City e Camberwell Green, volava senza accorgermene».
    ANGELA  NAPOLETANO

    giovedì 7 marzo 2019

    HOUELLEBECQ CERCA UN SENSO TRA CHIMICA E IL SACRO

    Nel suo acclamato "Serotonina", lo scrittore francese scava nella disperazione dell'uomo contemporaneo e scarta la via degli antidepressivi (il captorix non funziona), con una sorpresa finale.. 


    Anche la copertina dell’edizione italiana è stata uniformata alla promozione di un best seller annunciato, con l’immagine di un’auto che brucia in uno spettacolare rogo di fiamme e fumo rosso. Ma c’è molto di più, nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (recensito su “Avvenire” da Maurizio Cucchi), di una preveggente anticipazione della rivolta dei “gilet gialli”, a dire il vero piuttosto vaga se si considera che sono i produttori di latte esasperati dalla concorrenza estera i protagonisti di una parte del romanzo. Banalmente, è nel titolo l’asse portante di lettura, individuale e non sociale. 
    Serotonina è infatti il neurotrasmettitore divenuto popolare come chiave per la felicità personale. Gli antidepressivi di ultima generazione cercano di mantenerne alta la concentrazione nel sistema nervoso, ma oggi sappiamo che non sono le variazioni nei livelli di serotonina a causare direttamente, nella maggior parte dei casi, il male tipico della contemporaneità. E il depresso Florent-Claude Labrouste – 46 anni ma con un ottundimento emotivo più tipico di un ultrasessantenne –, nel suo precipitare verso il grado zero di motivazione a vivere, ricorre al Captorix, felice invenzione dello scrittore esemplata su farmaci in commercio, a partire dal mitizzato e demonizzato Prozac. «È una piccola compressa bianca, ovale, divisibile», recita l’incipit del romanzo. E la stessa descrizione appare nelle ultime, rivelatrici pagine. Il Captorix, con il suo nuovo meccanismo d’azione, sta sullo sfondo della vicenda esistenziale del personaggio narrante. Funge da stampella temporanea, «non crea né trasforma; interpreta». E, soprattutto, cancella la libido. Non è il grande “euforizzatore” che regala una nuova pienezza e riaccende un io spento, né il grande alleato del capitalismo efficientistico che vuole tutti lavoratori e consumatori attivi e soddisfatti per via chimica. L’estenuazione dell’uomo occidentale moderatamente ricco e moderatamente istruito è una crisi di senso – ci ricorda da molti romanzi lucidamente e virtuosisticamente disperati Houellebecq –, e una pasticca non restituisce quel senso. È interessante notare come nell’orizzonte immanentistico in cui si muovono sia l’autore sia Labrouste nel libro, non funzionino i rimedi che la scienza fornisce. Non la farmacologia, che rallenta la discesa ma non ha potere di arrestarla. Non l’implicito paradigma evoluzionistico, per il quale possono essere il lavoro manuale e la quotidiana lotta per la sopravvivenza ciò che tiene lontano il tedio dell’uomo contemporaneo sradicato dal suo ambiente atavico: l’amico Aymeric che ha scelto l’allevamento tradizionale e che munge manualmente le sue mucche tutte le mattine termina anzitempo la sua parabola con un suicidio apparentemente “politico”, ma in realtà tutto iscritto in una dinamica di profonda insoddisfazione personale. Per Florent-Claude la disillusione si allarga dalle relazioni familiari – si tolgono la vita anche i genitori, espressione di una generazione ancora non toccata dal virus di fine epoca – alla dimensione pubblica – qualsiasi impegno lavorativo sembra inevitabilmente destinato a uno scacco programmatico, un ingranaggio cosmico trascina le cose in modo ineluttabile e nessuno ha possibilità di invertirne il corso.
    Una luce si accende in lampi giovanili con le relazioni affettivo-sessuali che Labrouste ora rimpiange quale unica possibile fonte di felicità. Ma quei momenti sono irrimediabilmente persi, perché nessuno ha avuto il coraggio di metterci il cuore, che significa investire, prendere un impegno, rinunciare a qualcosa. A posteriori era forse quella la strada da percorrere. Eppure, gli amanti non hanno saputo andare oltre il loro superficiale desiderio di non precludersi altre opportunità e di continuare a esplorare senza una vera meta. Non basta sostenere il tono dell’umore con il Captorix, di fronte a un vuoto di cui si ha sempre più lucida consapevolezza. Tutto è vanità, se si rinuncia anche all’amore, potrebbe dire Florent-Claude, che soffre autenticamene ma non si abbandona al cinismo – quando si esercita a sparare sulla spiaggia e non riesce a tirare il grilletto dopo avere messo un uccello nel mirino anche il lettore ritrova empatia per quest’uomo privilegiato che sembra andare sprecando la vita. La sorpresa arriva nel finale che apre un orizzonte inatteso, quasi “eucaristico”. «In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono segni estremamente chiari». Una compressa bianca divisibile... E la conclusione in quelle righe urticanti scritte da un ateo: «Oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì». Non c’è Captorix che salvi e ridoni senso. Ma le altre vie per tutti i Labrouste si rivelano oggi dolorosamente impervie. 
    Andrea Lavazza(Studioso di scienze cognitive e di neuroetica )